Gocce. Erano gocce di piacere. L’una dopo l’altra. Pure quell’ultima. Che si sapeva già fosse l’ultima. E fu per questo tiepida. Forse insapore. Una goccia che evaporó quasi subito, prosciugata dalle inesorabilità delle convenzioni. Eppure aveva la forma delle altre. Le mille e più altre gocce.
Gocce clandestine e roventi. Inevitabili e non per questo meno roventi. Scorrevano e disegnavano piacere. Pelle e buio. Tempo relativo. Condiviso. E spesso rubato. Ma quell’ultima goccia non ne aveva la consistenza. Era la goccia d’addio. L’ennesimo addio, però. Perché quando una goccia viene giù, prepara sempre la strada alla goccia successiva. Che lo voglia o no. Ed è sempre tempo relativo. Condiviso. E ancora una volta rubato. Ma intenso, cercato, voluto, disegnato. Sulla pelle. Nel buio.
Loro erano prigionieri delle loro gocce. Mischiate e confuse, scambiate e godute. Poi asciugate. Agli occhi del mondo, che arido ti asseta. E ti fa agognare la goccia. Che per questo, dopo l’ultima insapore, tornó improvvisamente a stillare. Col sapore della lunga attesa. Perché le gocce non finiscono mai.
Stalattite e stalagmite: lì ad osservarsi e puntarsi nei tempi infiniti, a prendere forme diverse, a non incontrarsi, a vivere ognuna la propria millenaria immobile esistenza, ma a formarsi l’una della goccia dell’altra. Lentamente. Inesorabilmente.
Perché serviranno forse migliaia di anni. Forse milioni. Ma prima o poi, un giorno, stalattite e stalagmite finalmente si incontreranno. E si fonderanno in un monolite eterno. Definitivo. Goccia dopo goccia. Dopo goccia. Dopo goccia.