La mia persona

A(b)Braccio # Elvira Terranova

Ciao, Cri.

Ti scrivo per dirti che mi manchi. Che da un anno mi sento più sola. Senza di te, senza la ‘mia persona’. Ricordi quando, per gioco, iniziammo a chiamarci così? Non eri solo la mia migliore amica, no. Eri la ‘mia persona’. Quella a cui avrei affidato la mia vita.

Abbiamo condiviso quasi 25 anni delle nostre esistenze. E tu c’eri sempre. Senza dovertelo mai chiedere. Con discrezione, in punta di piedi, in silenzio. C’eri. E questo mi rendeva più forte. Ricordi quando ci siamo conosciute, in una piovosa e fredda serata d’inverno, in un campo di calcio di periferia, a fare il tifo per i nostri giocatori? Eravamo solo io e te. A morire di freddo. Quella volta ci siamo cordialmente ignorate. Ci siamo guardate facendo finta di niente, ma assolutamente ignorate. Poi, le volte successive, ci siamo annusate. Fino ad iniziare a parlare, ad aprirci, a raccontarci delle nostre esistenze da ‘straniere’. Tu, salernitana, venuta a Palermo per amore. Io, sradicata dalla Germania, finita per qualche anno a Licata e poi venuta a Palermo per inseguire il mio sogno, quello di fare la giornalista.

Eravamo poco più che ragazzine. E da allora non ci siamo più lasciate. Abbiamo condiviso tante, tantissime serate, vacanze, momenti belli e meno belli. E tu c’eri sempre. Ricordo come fosse ieri quando mi invitasti a pranzo e alla fine mi dicesti, con gli occhi pieni di gioia, che aspettavi un bambino. Eri la donna più felice del mondo. E lo ero pure io. E’ nata Marta e io fui la prima a farle da baby sitter, ad appena pochi giorni, perché, mi dicesti: “Mi fido di te. Ti sto affidando la cosa più preziosa che ho al mondo”.

Poi, dieci anni fa, il tumore. Io tremavo dalla paura. Quando ti accompagnavo a fare la radioterapia, eri tu a farmi coraggio. E pure per la chemio. Davi la forza a tutti noi. E hai vinto. Non avrei mai immaginato che quel mostro tornasse dopo dieci anni per portarti via da me e dai tuoi cari in pochi mesi. E anche questa lotta l’hai affrontata come una leonessa. Con una forza d’animo incredibile. Fino a pochi giorni prima di andartene, mi facesti vedere le bomboniere che volevi scegliere per i tuoi 25 anni di matrimonio che avevi organizzato a Lampedusa per settembre. Sapevi che non ci saresti arrivata, ma mi parlavi dell’acconciatura da sistemare al meglio, con quei capelli così corti, appena cresciuti dopo la chemio.

Ci volevi credere. Ci credevi. Eri fatta così. E quanto amavi Filippo, Cri. Eravate una coppia perfetta. Vi guardavo e vi ammiravo. Quanto mi piaceva prenderti in giro, quando prima di mangiare vi davate il bacio per augurarvi la ‘buona cena’. Ma, ogni volta, vi guardavo con ammirazione. Non eravate solo una coppia e basta. Eravate complici, amanti, amici. C’eravate sempre. L’uno per l’altro.

Da un anno non ci sei più, Cri. Ma io continuo a parlare con te. Sì, mentre sono sola, in redazione, a casa, in scooter. Mi rivolgo a te, sapendo che, da qualche parte, mi stai ascoltando. Lo so, non puoi rispondermi. Ma so che ci sei. I tuoi occhi blu, meravigliosi, mi accompagnano in ogni istante della mia giornata. La tua voce pure. La tua risata, bella, pulita, cristallina, il tuo accento campano, che mi faceva sorridere. Cri, ogni giorno che passa mi manchi sempre di più. E’ vero, la vita continua. Gli impegni, i problemi, il lavoro. Ma la tua assenza pesa come un macigno sul cuore. Spesso riesco a dissimulare. Ma poi, in solitudine, eccola lì, tutta la mia tristezza, tutta la mia disperazione, tutto il mio dolore. Che si abbattono su di me, lasciandomi senza respiro. La ‘mia persona’ non c’è più. E io mi sento più sola.

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Fuska, il mio cane per sempre

A(b)Braccio # Filippo La Torre

Sono trascorsi dodici mesi e Fuska è morta sopra la sua brandina. Non è morta di vecchiaia. Ancora l’anno prima, a dispetto dei suoi sette anni, era in grado di percorrere chilometri e chilometri senza avvertire la fatica. La portavo spesso in montagna, scompariva dalla mia vista e poi ritornava di corsa, raggiante in viso e mi saltellava davanti come per dire: “E dai, smuoviti, pigrone!”.

Leishmaniosi. Un nome che, a pronunciarlo, la lingua lambisce amorevolmente il palato. Appena mi vedeva in mano quella bottiglia con il filo lungo, rientrava nel seminterrato, saliva sopra la sua brandina dai motivi scozzesi, con lo sguardo rassegnato, ma con la consapevolezza che mai avrei potuto farle del male. E se le riusciva oltremodo faticoso sottoporsi a quel rito odioso, lei lo accettava perché ero io a volerlo.

Ero sempre stato al centro del suo universo ed ero stato io a vegliarla durante il lungo parto di sei cuccioli. Era d’inverno, si avvicinava la notte e assistetti, all’alba, che s’infilava dalla finestra. Era orgogliosa, Fuska, della sua cucciolata. Il suo sguardo questo diceva, mentre stava sdraiata ad allattare quei suoi famelici figli. Se li stringeva alle mammelle con le zampe, amorevolmente.

L’estate era arrivata e chissà se ricordava le calde giornate degli anni che avevamo trascorso in riva al mare, se aveva nostalgia del suo salsicciotto lanciato in acqua e la frenesia nel recuperarlo e i tuffi che facevamo dagli scogli, insieme, quasi in competizione.

Il veterinario sentenziò: “E’ inutile continuare questo supplizio, ormai le speranze di una ripresa sono nulle, per lei ci sarà soltanto sofferenza. La decisione spetta a te”. Mentre l’ago la penetrava per l’ultima volta, io le accarezzavo la testa e i suoi occhi parlavano un linguaggio che io capivo benissimo e mi dicevano: “Grazie per la vita che abbiamo vissuto insieme, sei stato un buon compagno”. E chissà se anche in quella testa di cane, si affannavano in flashback disordinati, le immagini degli anni passati. Ma io questo immaginavo e avrei voluto che fossero immagini a colori.

Ebbe un leggero fremito e i suoi occhi persero per sempre la luce. Il giardino che circonda la mia casa, è un bel giardino. Ci sono piante da fiore e piante da frutto, ma nessuno immagina che sotto quella terra, nera di salute e rigogliosa, si cela un grande cimitero. La fossa per Fuska è pronta, riposerà accanto a suo padre, il grande Wool. E alla sua destra ritroverà Athos, compagno di giochi e suo bersaglio preferito di dispetti.

Volevo sposare Marco Tardelli

A(b)Braccio # Daniela Tornatore

Ancora una volta Italia e Germania. Come tante altre volte. Come quell’11 luglio del 1982. Avevo 12 anni, ero piccola tra soli grandi. Per una ragazzina di quell’età le restrizioni erano, soprattutto allora, tante. Per questo, più guardavo i grandi, più volevo diventare come loro e il più in fretta possibile. Anche perchè avevo capito subito che per fare certe cose dovevo crescere, non c’erano deroghe. Soprattutto non c’erano deroghe per l’amore. Ed io amavo Marco Tardelli.

Decisi quella sera che, succedesse quel che succedesse, andasse come andasse, io quell’uomo che urlava dopo il gol alla Germania, lo avrei sposato.

Altro che Cabrini, altro che Antognoni: io amavo lui, volevo lui e nessun altro. Mi rendevo già conto che la differenza di età tra noi era abissale, tuttavia non incolmabile. E mi convinsi che il nostro problema, al massimo, era tutto lì.

Fu così che cominciai a fare quello che non avrei mai più smesso di fare in tutta la vita: sognare e sperare con tutte le forze. L’ho desiderato spegnendo le candeline dei miei compleanni, l’ho desiderato gettando la monetina nelle fontane magiche alle gite d’istruzione. L’ho desiderato, punto. Convinta che più lo avrei desiderato e più il mio sogno si sarebbe realizzato.

Gli azzurri, si sa, vinsero quella finale per 3-1. Il gol di Tardelli fu per me, piccola sognatrice, un segno del destino (che vedevo solo io).

Da quella sera sono passati più di 30 anni. Oggi posso fare quello che allora non potevo fare: guardare indietro. Marco Tardelli poi l’ho conosciuto davvero, ma ovviamente non ci siamo sposati.

Il suo resta l’urlo dei miei sogni infranti, quello di allora e dei tanti che sarebbero arrivati dopo. Perchè come dice il mio amico Luciano Ligabue, anni di fatica e botte e vinci casomai i mondiali. La vita è un’altra cosa.

Il mio amico

A(b)Braccio # Francesco Massaro

Sono in moto sulle Dolomiti con un mio vecchio amico. Lui da queste parti c’è venuto mille volte con sua moglie. Conosce strade, passi, alberghi, ristoranti, è un’istituzione. Stavolta sua moglie non c’è, il loro matrimonio è finito qualche mese fa lasciandosi dietro tutto il dolore, la rabbia, la malinconia, la solitudine che tutti noi sappiamo.

Io però oggi lo vedevo girare per queste montagne con tutto il furore, l’entusiasmo e la gioia che gli conosco da sempre, pur sapendo che a ogni curva, a ogni passo, a ogni birra, il pensiero andava a lei che negli ultimi vent’anni è stata il suo inseparabile passeggero.

E io davvero non capisco dove riesca a prendere la forza – perché di forza si tratta – per ripercorrere le strade che ha percorso mille volte con lei e farlo con la stessa passione, la stessa grinta, la stessa voglia di quando con quella stessa moto girava il mondo – sul serio, dico – e credeva, come nella nostra vita abbiamo creduto tutti, che lui e lei non si sarebbero lasciati mai.

Mai domo, leggero sopra le cose, inaffondabile. Se un giorno il dolore lo vincerà, sarà solo perché la sua moto l’avrà tradito, non per altro. Ma la sua moto non lo tradirà mai, lo so, la sua moto non lo tradirà mai.

TdC

A(b)Braccio # Maria Andaloro

Non smetto di pensare ad una vicenda degna del peggiore Frankenstein. La storia è questa: “I medici – secondo l’accusa – dissimulavano interventi di chirurgia estetica additiva, certificando l’esistenza di patologie oncologiche. In alcuni casi facevano credere ai pazienti che fosse necessario un secondo intervento per la sostituzione delle protesi difettose”.

Sarà che conosco cosa accade nella vita di una donna malata di cancro, col tumore al seno. Con la prospettiva, al massimo, di tre mesi di vita. Una bomba sganciata senza giri di parole nella vita di una giovane donna di 41 anni. Che è stata capace di strappare a quella “sentenza” altri 14 anni, nonostante gli attacchi della malattia su più fronti. Continua a leggere “TdC”